Smarrimento e solitudine … dopo il lockdown.

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Ciao a tutti e benvenuti al mitico appuntamento con la nostra newsletter. Manca ormai veramente poco a Màt 2020 e noi di Radio LiberaMente cerchiamo sempre di rimanere “sul pezzo” raccontandovi notizie, commentando articoli e, più in generale, condividendo con voi riflessioni sul mondo della Salute Mentale.
Certamente durante la prossima edizione di Màt si parlerà anche di Covid e, in modo particolare, di come questa terribile pandemia ha condizionato il nostro vissuto psicologico, la nostra mente. Anche perché alla preoccupazione per la patologia in sè, si sono indubbiamente aggiunti gli effetti del lockdown, con tutto ciò che ne é conseguito. Può risultare interessante, in situazioni complesse come queste, cercare anche di individuare gli (eventuali) aspetti meno drammatici. Alcune persone, infatti, hanno fatto notare come un periodo di isolamento quale quello da poco trascorso possa paradossalmente aver contribuito a farci comprendere aspetti importanti di noi stessi, delle nostre relazioni con gli altri, del nostro modo di concepire il tempo e il rapporto con esso.
Forse (ma questa é solo un’ipotesi) molti di noi hanno appreso a vivere meglio la solitudine, ad attribuire maggiore importanza a determinati valori, o anche semplicemente a rendersi consapevoli di quanto la loro esistenza pre-covid fosse eccessivamente stressante e caratterizzata in modo esagerato da impegni inutili e vuoti. L’importante però, viene da sottolineare, è che una tale situazione di isolamento (del tutto straordinaria) non venga alla lunga percepita come una confortante “protezione dal mondo esterno” e che tenda quindi a cronicizzarsi nella vita di alcune persone.
Questa possibilità (di certo non auspicabile) può davvero insinuarsi nel vissuto di qualcuno, apportando, come é facilmente comprensibile, effetti oltremodo negativi. A tal proposito, navigando su internet, abbiamo trovato un post molto interessante, pubblicato su Huffingtonpost.it nel giugno di quest’anno, a cura della Dott.ssa Gabriella Giustino (Psichiatra e Psicoanalista). Quest’ultima parla di claustrofilia e specifica come, nell’ambito psichiatrico, essa venga definita come una “tendenza morbosa a vivere in luoghi chiusi e appartati”. Si specifica, oltretutto, come essa sia in qualche modo da ricollegare a dei bisogni di protezione che teoricamente possono nascere in tutti noi in alcuni momenti della nostra esistenza, senza per forza di cose esprimendosi sotto forma di patologia. La tendenza claustrofilica rimanda a bisogni primari di “fusione con figure genitoriali” e nel post suddetto si citano due psicoanalisti che, nello specifico, hanno studiato e descritto la tematica, rivelandone aspetti importanti e, ci viene da aggiungere, in un certo senso anche affascinati.
Elvio Fachinelli, ad esempio, ha parlato della claustrofilia come di un’attrazione fortissima verso un piacere provato nel rapporto originario di intimità con la figura materna, una condizione di immobilità senza tempo che dà protezione ma, inevitabilmente, non fa vivere il dinamismo dell’esistenza. Anche lo psicoanalista Donald Winnicot ha trattato l’argomento, specificando come il senso di solitudine, in generale, affondi le sue originini nelle primissime interazioni sufficientemente buone con la figura materna (o con chi, in qualche modo, ne fa le veci, assumendo un ruolo accudente). L’essere umano ricorda queste prime esperienze per sempre e quindi, se esse non sono state buone o addirittura si sono verificate perdite o traumi, la persona tenderà verso fantasie claustrofiliche. Proprio in questi casi la solitudine si caratterizza come vero e proprio isolamento.
Gabriella Giustino racconta come alcuni suoi pazienti, nel corso della prima fase del covid, abbiano vissuto il ritiro sociale e l’isolamento con un certo senso di piacere, che a lei é, ovviamente, apparso eccessivo. Oltretutto, spiega la dottoressa, ora quelle stesse persone tendono a provare un senso di smarrimento e a  stare ancora ritirate, come lei specifica “chiuse nei loro chiostri fisici e mentali”. La dottoressa ipotizza che questi pazienti nutrano sostanzialmente timore del cambiamento, avvertito come catastrofico, e delle sue conseguenti frustrazioni. La pandemia, secondo Giustino, unita alla quarantena, ha rafforzato la zona claustrofilica della loro mente, rendendoli impreparati ad un riadattamento alla realtà esterna che é inevitabilmente mutata, e incrementando persino la paura dell’altro.
Il post continua in modo avvincente a spiegare quanto invece siano fondamentali per la persona  le relazioni con gli altri, anche alla luce di numerosi studi neuroscientifici che ci identificano come esseri relazionali in modo intrinseco (intendendo tra le interazioni umane anche quella con noi stessi). Persino l’utero materno (magari considerato superficialmente come luogo immobile e senza particolari stimoli) é in realtà ricco di sensazioni e comunicazioni con la madre.
Giustino si interroga anche giustamente su quanto la claustrofilia possa delinearsi pure come problema psicosociale e collettivo, alla luce non solo dell’attuale pandemia, ma anche del “rifugio” rappresentato dai nostri pc e dispositivi digitali. A Màt 2020 si parlerà anche di questo, con riferimento in particolare al fenomeno degli hikikomori, i ragazzi giapponesi completamente immersi nel loro mondo digitale e quasi del tutto privi di interazioni sociali. Importante é saperne di più per prevenire situazioni di questo genere, approfondendo le dinamiche psicologiche che le condizionano.