Ciao a tutti e benvenuti al consueto appuntamento settimanale con la
nostra newsletter. “Tristezza, per favore va via, tanto tu in casa mia,
no, non entrerai mai”, così cantava qualche anno fa Ornella Vanoni, in
uno dei suoi brani di maggiore successo. Ebbene, ma siamo sempre sicuri
che la tristezza debba in ogni caso essere rimossa? E che invece, in
alcuni casi, non possa rappresentare un’occasione di rinascita,
quantomeno per raggiungere una maggiore consapevolezza di noi stessi e
della nostra esistenza? Inoltre: c’è sempre un motivo importante dietro
ad un sentimento di questo tipo, o a volte, molto francamente, non vale
veramente la pena di rattristarci e dovremmo ammettere di stare
esagerando?
Queste ed altre riflessioni ci sono state suggerite da
un’interessante articolo pubblicato sulla rivista “F” la scorsa
settimana, scritto da Carlotta Vissani. L’autrice affronta questi ed
altri interrogativi sulla base a sua volta di alcune considerazioni di
Francesco Aquilar, psicologo e psicoterapeuta. Dalla sua lettura si
evince molto chiaramente l’importanza di considerare i periodi di
tristezza come momenti in un certo senso costruttivi, se affrontati
tenendo presente alcuni suggerimenti molto utili al fine di raggiungere
una maggiore consapevolezza. Innanzitutto, come spiega inizialmente
Aquilar, risulta fondamentale riconoscere (in modo, ci verrebbe da dire,
oggettivo) di essere tristi, partire già da questa prima forma di
consapevolezza, estremamente importante. Può capitare infatti di
confondere questo stato d’animo con altri, scambiando per esempio
momenti di malinconia o di insoddisfazione con un sentimento di
tristezza che, in realtà, non è esattamente tale. E’ inoltre
fondamentale delineare con precisione il motivo scatenante della propria
“infelicità”, avendo eventualmente il coraggio di constatare se si sta
esagerando. Le cause a volte, bisogna ammetterlo, possono consistere in
accadimenti o elementi tutto sommato futili, di scarsa importanza,
quando invece, per altre motivazioni di un certo peso, la tristezza è un
sentimento fisiologico, addirittura salutare. Aquilar spiega, tra le
altre cose, quanto essa possa servire a riconnetterci con noi stessi,
facendoci comprendere chi siamo e ciò che realmente vogliamo, aiutandoci
a reagire efficacemente a quello che succede nella vita. La tristezza
può aiutare a perdonarci per gli errori commessi, favorendo un processo
di ricostituzione.
Come specificato nell’articolo, è anche importante
non trasformare la tristezza in rabbia, come può succedere quando ce la
prendiamo con noi stessi perché non vorremmo provare un sentimento così
apparentemente negativo. In alcuni casi, è bene ancora specificarlo, si
ha tutto il diritto di essere tristi e di lasciarsi andare allo
sconforto. Fondamentale però (e questo costituisce un consiglio pratico
molto interessante) è cercare di “darsi un tempo ragionevole”. Cosa
significa questo? Semplicemente, sostiene Aquilar, vuol dire che, per
evitare la deriva patologica depressiva, bisogna considerare il proprio
stato d’animo come passeggero, con in sé il potenziale della futura
trasformazione e rinascita. Quindi, proprio come in fondo succede anche
con le altre emozioni, la tristezza deve avere un tempo limitato e
condurre ad un accrescimento del desiderio di metterci in moto per
superarla. E’ quindi importante accoglierla, come dice la giornalista,
lasciarsi attraversare da essa per poi congedarla, magari confidandosi
anche con persone di cui ci fidiamo. Ovvio che, se si intuisce
l’avvicinarsi di una vera e propria depressione, è consigliabile
rivolgersi ad un professionista.
L’articolo preso in esame infonde
positività e speranza, soprattutto, naturalmente, verso tutti coloro che
stanno attraversando un periodo difficile, caratterizzato da sofferenza
ed infelicità. E’ inutile nascondercelo, qualche volta sembra che il
tunnel di buio in cui ci troviamo non abbia mai una fine, o quantomeno
essa sembra molto lontana nel tempo. I suggerimenti esposti mirano
sostanzialmente a non fuggire al nero che in alcuni casi può inondarci,
insegnano a guardarlo in faccia e a dargli spazio, ma sempre nell’ottica
di una sua futura (e non troppo lontana) risoluzione. Anche perché, ci
viene da considerare, il “rimosso” non sempre porta ad esiti positivi,
anzi… Una riflessione andrebbe però fatta sul discorso delle
cosiddette “cause scatenanti”, poiché è forse esperienza comune che non
tutti i periodi di tristezza sembrano essere “motivati” da qualcosa di
specifico, almeno ad una prima lettura. E’ probabile che un bravo
analista riesca a risalire a cause inconsce, ma sembra chiaro come in
certi momenti della vita una sorta di “melanconia” affiori quasi a
prescindere da ciò che ci circonda, un sottile (ma a tratti potente) mal
di vivere abbastanza inesplicabile, almeno razionalmente. Come scritto
anche in una delle precedenti newsletter, l’uomo è ancora in parte
mistero, e un freddo e distaccato atteggiamento di analisi psichica a
volte risulta difficoltoso, soprattutto per colui che vive direttamente
certe emozioni. Un “rivolgersi all’esterno”, quindi, per comprendersi
meglio può spesso essere auspicabile, intendendo per “esterno” non solo
medici e confidenti, ma anche la realtà che ci circonda, nei suoi
aspetti culturali e di natura.