Carissimi amici, ben tornati all’appuntamento settimanale con la nostra mitica newsletter. Come ormai avrete capito, a noi di Radio Liberamente piace ogni tanto fare incursioni nel mondo dell’arte figurativa. Senza tralasciare la nostra passione quasi esagerata per la musica, amiamo sovente raccontarvi notizie relative ad artisti più o meno famosi, del mondo contemporaneo e non solo. Quando poi tali informazioni si uniscono alla dimensione della Salute Mentale, la nostra soddisfazione è immensa. Già in una precedente newsletter, ad esempio, abbiamo cercato di spiegarvi il valore dell’arte contemporanea, nonostante il pregiudizio che spesso la accompagna relativo alla sua difficoltà di comprensione. Senza troppo andare sul discorso e rischiare di essere ripetitivi, ci piacerebbe rimarcare ancora l’enorme valore che l’espressione artistica può avere per chi soffre di un disagio psicologico.
E questo non solo perchè disegnare, dipingere o scolpire può rappresentare uno sfogo sublimato in un’ammirevole realizzazione concreta ( che dà consolazione a chi la produce) ma anche perchè spesso l’opera d’arte in sè diventa un mezzo di comunicazione fondamentale per chi ha difficoltà ad approcciarsi con gli altri. L’arte quindi come terapia, ma anche come strumento di interazione con un mondo esterno nei confronti del quale, a volte, si può avere una relazione distaccata o conflittuale.
Quello che desideriamo raccontarvi questa settimana è una storia particolarmente avvincente da questo punto di vista, che ci ha portato ancora una volta a riflettere sul valore anche terapeutico dell’esperienza estetica e delle sue importanti ripercussioni sul mondo. Vogliamo parlarvi di Fernando Nannetti, un’artista a tutti gli effetti che magari qualcuno di voi già conoscerà, ma di cui ci sembra giusto darvi informazioni sulla sua biografia e, nello specifico, sulle difficoltà esperenziali che ne hanno fatto un grande personaggio. Oreste Fernando Nannetti, fin dall’infanzia, ha vissuto situazioni problematiche. Dall’età di sette anni è stato accolto in varie strutture: prima in un istituto di carità, poi in uno per minorati psichici, poi ancora all’ospedale Forlanini di Roma, per un problema importante alla colonna vertebrale. Nel 1958 Nannetti entra nel manicomio di Volterra, più precisamente nel reparto giudiziario Ferri, in seguito all’accusa di oltraggio a pubblico ufficiale. Ci sembra giusto, a questo punto, spiegarvi brevemente cosa fosse l’istituto di Volterra. Il manicomio, nella fattispecie, naque nel 1884 e ospitò per un lungo periodo (fino alla chiusura nel 1978, in seguito alla legge Basaglia) numerosissimi pazienti, provenienti da tutta la penisola e, si badi bene, non solo effettivi malati mentali, ma anche quelle persone che per i più svariati motivi risultavano scomode o comunque ai margini della società. La straordinarietà dell’esperienza di Nannetti sta nel fatto che lui in questo luogo è riuscito a realizzare, con pochissimi mezzi e non propriamente artistici, un’ importante opera d’arte, un vero e proprio capolavoro.
Ma come si è svolta concretamente la sua realizzazione artistica? Nannetti ha prodotto un vasto graffito, caratterizzato dalla presenza non solo di disegni ma anche di parole e altri segni, incidendo sul muro del suo reparto, durante le ore d’aria. Molto particolare, aldilà del contesto ambientale in cui tale lavoro si è svolto, è stato il fatto che l’artista abbia utilizzato, come mezzo, una semplicissima fibbia, e che abbia operato in totale silenzio, senza comunicare con nessuno, se non con l’ infermiere del reparto, un certo Aldo Trafeli, che in qualche modo sarà l’unico ad accedere non solo in senso strettamente figuativo al mondo del creativo paziente. Quest’ultimo, quindi, pervaso da una forza artistica probabilmente molto potente, si è espresso per lo più attraverso il lunghissimo graffito che diventerà un esempio importante di Art Brut.
Nannetti ha inciso sul muro il contorno di una pagina, per poi riempirlo con i numerosi segni creati dalla sua fantasia e, con tutta probabilità, dalle proiezioni più o meno consapevoli del suo inconscio e del suo pensiero, spesso concentrato su figure relative al mondo scientifico, che lui affermava essere il suo unico interesse. Sul muro infatti, è possibile notare una quantità incredibile di missili, pianeti e astronauti, quasi un tentativo di fuga, ci verrebbe da dire, dalla sua condizione limitante e soffocante. Il nostro artista, che si firmava NOF4 (acronimo del nome completo in cui 4 sembra riferito ai luoghi in cui è stato rinchiuso nella sua vita), è morto nel 1994 ma la sua opera naturalmente è rimasta. Anzi, Andrea Trafeli (figlio dell’infermiere) e Claudio Grandoli, uno dei fondatori della Onlus Incursione Graffio e Parola, sono impegnati nel preservare il suo importante lavoro, tanto riconosciuto a livello internazionale quanto poco in Italia. Ma non solo. L’intento dei due è anche quello di trasmettere in qualche modo la memoria storica del manicomio di Volterra. L’opera d’arte, in questo modo, risulta diventare non solo espressione di sè e del proprio mondo interiore, ma anche rappresentazione del contesto in cui si è vissuto per molto tempo, spaccato concreto di un ambiente difficile e probabilmente anche ostile, nel quale non era impedito però di sognare e di volare mentalmente nello spazio. Verrebbe da dire, citando David Bowie, che Nannetti è stato un vero “starman”